Quel giorno non lavoravo. Me ne stavo in casa a riordinare la camera e a rimettere a posto alcuni appunti. Era il periodo nel quale alternavo l’attività televisiva al lavoro di ricerca nel dipartimento di scienze sociali dell’università di Perugia. Vi ero arrivato dopo una segnalazione del professor Vittorio Dini, docente all’università di Siena e persona molto conosciuta in vari ambiti della società civile aretina.
Grazie alla cortese disponibilità di Dini, ero entrato in contatto con il professor Paolo Mancini, sociologo, studioso dei mass media e docente nell’ateneo perugino. Proprio sotto la visione di Mancini, avevo elaborato un progetto di ricerca riguardante il rapporto tra i mezzi di comunicazione e le forze armate. Con quel progetto partecipai a un concorso nazionale bandito dalla Rai, la quale metteva a disposizione cinque borse di studio da destinare all’attività di ricerca, oltre alla pubblicazione dei migliori elaborati in una collana di studi di settore. Arrivai ottavo su centocinquanta partecipanti. Un buon risultato di per sé, che, tuttavia, non fu sufficiente ad andare avanti. Il lavoro rimase, quindi, in un cassetto dell’università di Perugia e, a distanza di svariati anni, non so quale uso ne sia stato fatto.
Il sobbalzo alla scrivania
Il contesto umbro, dunque, era a me familiare e lo divenne ancora di più la mattina del 26 settembre 1997. Ero seduto alla scrivania di casa quando una scossa di terremoto, mai avvertita prima così forte, spostò il tavolo dello studio facendomi sobbalzare. Non ci volle molto a capire che la zona dell’epicentro fosse abbastanza vicina alla mia città. E, in effetti, le notizie ricevute fecero subito riferimento ai monti dell’Appennino umbro-marchigiano a ridosso di Foligno che, da Arezzo, è distante circa 120 chilometri. Furono momenti di forte inquietudine, che si trasformò in angoscia nel vedere le riprese filmate trasmesse dal telegiornale all’ora di pranzo. Le immagini descrivevano una situazione assai più grave di quella ipotizzata in un primo momento. Una di esse mi colpì in particolare: quella del crollo di una vecchia casa di campagna nella frazione di Casenove, un piccolo paese della montagna folignate, in direzione del valico di Colfiorito.
La sequenza fu resa ancora più angosciante dalla presenza di un gruppo di bambini, i quali, sollecitati dai loro familiari, furono fatti allontanare di corsa prima che l’intero casolare venisse giù. Fu un servizio che seguii in silenzio e che spinse a darmi una mossa.
Anche ad Arezzo, come nella maggior parte delle province italiane, era operativa, già a quell’epoca, la consulta provinciale del volontariato di protezione civile. Era nata pochi anni prima con il compito di portare soccorso e assistenza alle popolazioni colpite da calamità naturali. Il terremoto dell’Umbria e delle Marche forniva dunque il modo alla consulta di mettersi in attività. Di essa, conoscevo bene il presidente dell’epoca, il professor Emanuele Secci, il quale era stato collega di mio padre all’Istituto tecnico industriale Galilei di Arezzo. Sollecitato da mio padre, telefonai a Secci, rendendomi disponibile a divulgare le notizie di pubblica utilità tramite la televisione con la quale collaboravo. Il professore chiese qualcosa in più. Invece di limitarmi a diffondere le informazioni attraverso i tg di Teletruria, domandò se potevo rendermi disponibile, a tempo pieno, per il lavoro della consulta, almeno nella fase iniziale del periodo di emergenza. Gli detti una disponibilità di massima, a condizione che la proprietà dell’emittente fosse informata della cosa. La proprietà, con la quale Secci parlò, non fece storie e disse subito di sì. Mi trasferii, quindi, negli uffici di piazza Santa Maria in Gradi, nel centro storico della città, pronto a partire per Foligno in caso di necessità. Furono giorni molto intensi. Scoprii un mondo per me nuovo, dove molte situazioni, date per scontate nella vita di tutti i giorni, non lo erano più. Un piccolo gesto, che nella normalità può apparire trascurabile, acquista, in quei frangenti, un valore straordinario.
Il modo di operare della consulta era semplice: anziché inviare aiuti generici alle popolazioni colpite dalla sciagura, col rischio che andassero perduti – i cosiddetti aiuti a pioggia – i volontari entravano in contatto con una località specifica loro segnalata, alla quale facevano pervenire i contributi, raccolti in base alle richieste degli abitanti. Nel nostro caso, il luogo prescelto fu proprio Casenove di Foligno.
Salendo verso Casenuove
Fu così che qualche giorno più tardi, insieme con Rodolfo Berretti, volontario della Misericordia di Arezzo, partimmo alla volta di Casenove, dove gli operatori aretini erano in azione da almeno un paio di giorni. Andammo lassù per una prima consegna di beni di prima necessità: prodotti sanitari, alimentari e generi di conforto.
Fino a Perugia non notammo nulla di particolare, ma quando superammo Bastia Umbra e arrivammo in prossimità di Spello, dove ci fermammo in una stazione di servizio per fare rifornimento, avemmo la sensazione di vivere una situazione strana, della quale si sapeva il giorno di inizio ma non si conosceva quello della fine.
La salita da Foligno verso Casenove, sulla vecchia statale 77 della Valle del Chienti – l’attuale superstrada non esisteva – ci fece aprire gli occhi su una realtà inquietante, nella quale tutto ci parlava del terremoto: case puntellate ai bordi della carreggiata, sassi caduti sulla sede stradale, senso unico alternato in prossimità delle strutture lesionate. Giungemmo a Casenove dopo avere percorso venti chilometri da Foligno e, quasi a darci un segnale ulteriore della sua presenza, il terremoto salutò il nostro arrivo con un’altra scossa di forte intensità, il cui rimbombo riecheggiò nei valloni dell’Appennino fino all’altopiano di Colfiorito.
Il mondo andava a velocità ridotta ma, per fortuna, non si era fermato. Gli abitanti del paese, in massima parte persone anziane, sostavano accanto alle roulotte nella zona del campo sportivo, cercando, per quanto possibile, di replicare i comportamenti di tutti i giorni: le donne lavoravano a maglia, gli uomini sistemavano gli oggetti domestici, i più giovani approfittavano della bella giornata per fare attività all’aria aperta. Ci fu lo spazio perfino per un caffè che una anziana signora del luogo ci volle offrire, con una fetta di dolce, appena seppe che eravamo lassù come volontari della protezione civile.
Caricare e scaricare il materiale non era una semplice operazione di fatica. Era, invece, un impegno appagante, soprattutto per me stesso. Riuscivo a coglierlo attraverso gli sguardi e le reazioni delle persone alle quali i contributi venivano destinati.
Ho sempre pensato che la dignità delle popolazioni dell’Umbria e delle Marche non avesse bisogno del terremoto per essere messa in evidenza: semmai ce ne fosse stata la necessità, il terremoto fu una conferma ulteriore del loro senso civico e della loro naturale compostezza. Rimanemmo a Casenove per l’intera giornata e ripartimmo per Arezzo nella tarda serata, lasciandoci alle spalle la fila delle roulotte illuminate e un’atmosfera dove tutto rimaneva ancora in sospeso.
Conclusi il mio lavoro con la consulta un mese più tardi. Appena terminata la fase iniziale dell’emergenza, la mia presenza in ufficio divenne sempre più sporadica. Non era più necessario andare ogni giorno in piazza Santa Maria in Gradi. Era sufficiente rimanere in contatto con Secci, Romanini, Bocciardi, Conti, Berretti e svolgere, anche da casa, l’incarico da loro richiesto.
23 anni dopo
A emergenza conclusa, ogni cosa prese il suo corso. La consulta aveva completato il proprio lavoro e il bilancio di quella difficile esperienza fu, comunque, soddisfacente.
Oggi, a distanza di 23 anni, mi è capitato di tornare a Casenove di Foligno per conto mio. Alcune cose sono cambiate, altre no. Il paese è tagliato fuori da una variante in galleria, che lo aggira all’esterno, e la stessa statale 77 è stata sostituita dalla moderna superstrada Foligno-Civitanova Marche.
Di quel periodo sono visibili, e ancora in parte abitate, le case di legno costruite nella fase iniziale dell’emergenza, mentre le opere di restauro delle vecchie abitazioni sono ormai completate.
Forse, un giorno, lo racconterò ai nipoti.